I tempi che stiamo vivendo sono notevolmente difficili. Il piano materiale sembra confermare che siamo in uno stato emergenziale, di crisi, andando a validare l’angoscia che invece si nasconde nel piano sottostante, quello immateriale. Eppure le crisi, maledette crisi, possono essere anche un punto di svolta che, se accolto, può portare ad una virata dalle rotte mortifere sedotte dalle illusioni, dalle cieche ideologie astratte, verso la possibilità di una terraferma che prospera attraverso l’unica cosa di cui abbiamo realmente paura: i rapporti umani.
Naturalmente in un periodo storico dove il rischio di contrarre una patologia virale appare alto, i rapporti umani vengono vissuti come particolarmente pericolosi. Covid19, lo chiamano, e lo cerchiamo freneticamente per avere maggiori informazioni, chiudiamo attività, istruzione, chiese, cinema e teatri proprio a causa sua. Ma voglio dirvi la verità: esiste un virus ancora peggiore del corona virus e circola da molto prima di questi ultimi mesi. Siamo stati per lungo tempo divisi sul far entrare o meno i migranti, sulla validità dei vaccini, sulle ragioni dei vegetariani e dei carnivori, sulla colpa di Morgan o di Bugo e, oggi, vediamo prendersi a pugni concettuali i catastrofisti e gli scettici del Covid19.
Abbiamo imparato a schierarci senza porre attenzione al sentire dell’altro e a vivere la diversità del pensiero altrui contro di noi, alimentando l’incomprensione di fondo in un dialogo infinito tra sordi. Le bocche si muovono ma le parole sono mute, sono vuote, le ripetiamo non per il loro contenuto reale ma per portare avanti una lotta che non avrà nessun vincitore. Il virus di cui parlo non è biologico, ma è altamente infettivo. È quello che ci faceva gioire nel sentire che il coronavirus era scoppiato in Cina, “tanto un po’ se lo meritavano perché erano sporchi”; è quello che ci fa dire “tanto colpisce solo i vecchi e gli infermi, che presto o tardi dovranno comunque morire”; è quello che ci fa lucrare e alzare i prezzi su amuchina e mascherine. Eccolo, non possiamo vederlo in faccia, non ha una corona che lo distingua dal resto dei virus né altra connotazione fisica, ma possiamo vederne gli effetti nefasti, che perniciosamente si sono propagati senza destare un effetto che non cadesse nel ring del conflitto o un pensiero che non fosse “contro”. Questo virus allora non ha un volto, ma ricalca le tante espressioni di negazione dell’altro, quelle che lo rendono sconosciuto e alieno, pericoloso, aggiungerei, tanto quanto noi che lo neghiamo. In realtà stiamo scacciando noi stessi. Questo virus, come per l’idrofobia, condiziona i nostri comportamenti e le nostre emozioni, ci rende ciò che non siamo in realtà, ci rende disumani, carichi di odio e di angoscia, in preda alle nostre realtà avide e bramose che proiettiamo su di un mondo da cui dobbiamo difenderci. Oppure ci rende completamente indifferenti alle situazioni che altri o noi stessi ci troviamo a vivere, facendo l’happy hour sotto le bombe come se nulla accadesse.
Questo virus si chiama istinto di morte e non si cura con gli antibiotici, gli antivirali o con altri farmaci. Ci guida verso l’illusione di una omeostasi da raggiungere con l’annullamento di sé e degli altri, come un salmone che tenta di risalire la corrente di un fiume che non esiste più perché lo ha fatto scomparire. Un pesce completamente pazzo, in preda al delirio, che fantastica di nuotare mentre annaspa sulla riva scisso dalla sua realtà! Il salmone, inteso come animale, non ha di questi problemi, non farà mai scomparire il proprio fiume, mentre l’uomo sì, ne è capace: lo può fare proprio attraverso l’istinto di morte. Sempre rimanendo nella metafora, allora dobbiamo chiederci: esiste un fiume per gli esseri umani? Esiste la possibilità di una strada certa dove prosperare, dove potersi realizzare? Anche se esseri umani, nella nostra storia come individui (ma come sappiamo la filogenesi ripercorre l’ontogenesi) siamo nati dall’acqua, siamo rimasti immersi per nove mesi nel liquido amniotico dove abbiamo potuto percepire e strutturare la possibilità di rapportarci in modo soddisfacente con “l’altro”.È questo primo rapporto corrispondente con una sostanza materiale, ma ricca di qualità umane come calore e accudimento, che ci ha permesso di crescere e trasformarci da feti a neonati, ed è la certezza della possibilità di un rapporto affettivo che ci ha permesso di andare verso tutte le trasformazioni successive, fino a diventare bambini e poi adulti. Eccolo il fiume umano, visto come la possibilità di vivere i rapporti come crescita e non come qualcosa da cui difendersi: una possibilità che non è circoscritta solo alla vitalità intrauterina ma è rilevabile in tutti i rapporti affettivamente validi che hanno permesso il nostro sviluppo. La disumanità, invece, si palesa esattamente come l’opposto di questa reale possibilità trasformativa: è la stasi, la rigidità, l’impossibilità, la coazione a ripetere, vivere il rapporto con gli altri come conflitto, con la sopraffazione. Un mors tua vita mea da cui dobbiamo difenderci barricandoci nelle nostre difese, dentro di noi e fuori di noi.
Se la battaglia che stiamo combattendo oggi è solo contro il famigerato Coronavirus 19, con le dovute precauzioni, prescrizioni ed interventi medici, sconfiggere il male che sta debilitando il nostro paese, anche se con difficoltà, sarà possibile. Ma se il virus invece è un vettore del nostro istinto di morte le cose si complicano notevolmente. La quarantena, da momento necessario per proteggere se stessi e i propri cari, diventerà la conferma dell’infettività psichica dei rapporti da cui doversi difendere alimentando la sfiducia, il conflitto; modificare la propria vita in virtù della situazione attuale, per prevenire e contenere l’epidemia, sembrerà una sciocchezza e, agendo come se nulla fosse, la si farà propagare ulteriormente. Ma questo accade solo se facciamo come quei salmoni “pazzi” della metafora precedente. Infatti non cancellando le nostre possibilità di rapporto valide, potremo anche rifiutare i miraggi dell’istinto di morte, in virtù di una strada che seppur vaga è certa dentro di noi, un fiume che parla di possibilità, di crescita, di soddisfazione, che può superare le crisi senza perdersi. Per fare questo siamo chiamati a non annullare, a non far sparire, a non allontanarci dai rapporti umani ma a viverli in maniera diversa. A non rendere il virus né qualcosa di onnipotente né di inesistente. A fare in modo che la protezione non diventi corazza, a restare affettivamente presenti nonostante le restrizioni materiali. A scegliere, nella crisi, la strada che ci porta verso il mare, anche quando appare controcorrente, rifiutando tutte le facili soluzioni che, proponendo il conflitto, portano in realtà verso il disumano.
Giorgio Tullio De Negri
Laura Croce