Situazione fuori controllo, Rivolta civile, Economia di guerra, Ecatombe senza fine, Non torneremo alla normalità, Siamo in guerra.
Coronavirus, musica, luci, arcobaleni, L’ottimismo viaggia in rete, Contro il coronavirus sbocciano gli arcobaleni, Andrà tutto bene.
Queste sono solo alcune delle espressioni che da più di un mese leggiamo costantemente sui giornali e sentiamo quotidianamente nei notiziari e nelle varie trasmissioni di informazione, o presunte tali. Parole importanti, a volte difficili da comprendere, cariche di un significato emotivo ed evocativo forte che, pungendo, colpiscono dritto all’inconscio. Ovviamente, non sono le parole le responsabili delle possibili crisi di ansia o stati depressivi individuali, è evidente che queste manifestazioni si poggiano su una base affettiva già fragile, ma è innegabile che la percezione che si ha dell’emergenza sia strettamente legata al modo in cui viene comunicata.
Assistiamo ad una importante dicotomia.
Una narrazione catastrofica, allarmista, militaresca: “Siamo in guerra”
Una narrazione semplicistica, buonista, arcobalenica: “Andrà tutto bene”
Poca narrazione informativa, chiara, reale.
Raccontare questa emergenza come una guerra è scorretto, non solo perché sembra voler aggravare la percezione di una situazione di per sé già estremamente complessa, ma anche perché porta a darne una lettura errata e a creare un vissuto che impedisce di rapportarsi alla realtà per quella che è, contribuendo alla messa in atto di meccanismi inconsci e comportamenti agiti, dannosi per il singolo e controproducenti per la società.
Un’epidemia, infatti, non è un conflitto armato e la condizione di quarantena, per quanto estremamente complessa, soprattutto dal punto di vista psicologico, non può essere paragonata alle privazioni di affetti e rapporti ma anche di bisogni primari, che colpiscono le popolazioni in guerra.
Ci sono delle analogie, è vero: anche durante un’epidemia combattiamo un nemico, anche durante un’epidemia rischiamo la vita, entrambe provocano conseguenze potenzialmente distruttive sulla socialità e sull’economia, e sono gestite da governi che richiedono la collaborazione della popolazione. Ci sono anche molte differenze, la più importante è che in questa lotta contro il coronavirus, combattiamo qualcosa che non ha scelto deliberatamente, per un proprio interesse o una propria volontà arbitraria, di aggredirci e che, per di più, è invisibile. Il nostro nemico è inumano e immateriale, il che rende difficile l’attuazione della dinamica consueta dei buoni contro i cattivi, degli amici contro i nemici. Il conflitto aperto dà l’opportunità di agire all’esterno la rabbia, la frustrazione, la devastazione affettiva, causata dalla condizione attuale ma anche da tanti altri eventi ed episodi della vita, personale e collettiva, e di rivolgere tutto questo ad altre persone, considerate la causa del proprio malessere. Un meccanismo orrendo, sbagliato, fuorviante, disumano ma che, apparentemente, semplifica e rende più accettabile la condizione di emergenza.
La lotta al Coronavirus, invece, silenziosa e senza scontri diretti, impedisce di avere un nemico esterno tangibile che è razionalmente “giusto” contrastare e porta inevitabilmente a scagliarsi contro chi, anche solo apparentemente, rischia di essere un alleato di questo nemico invisibile: i runner, i genitori che vogliono portare fuori i figli, chi continua a lavorare, chi vediamo camminare in un giardino, il vicino di casa che incontriamo senza mascherina. Abbiamo bisogno di un nemico e, a torto o a ragione, lo creiamo. Siamo in guerra.
Questa comunicazione terroristica e militaresca non informa, non crea il clima di condivisione, solidarietà e unione di cui necessiterebbe affrontare una situazione di emergenza nazionale e mondiale, ma contribuisce ad alimentare conflitti, divisioni e schieramenti.
L’intento potrebbe anche essere solo comunicativo e promozionale ma le conseguenze hanno una rilevanza sociale e politica, oltre che umana. Far diventare una malattia come una guerra, rende i morti dei caduti, i medici dei soldati eroici, i governatori generali e i cittadini potenziali vittime senza scampo, che diventano un popolo ubbidiente e arrendevole che accetta ogni decisione presa dall’alto, o fedele e combattivo che risponde facendo eco e megafono alle parole di propaganda del leader. Una comunicazione allarmista e strategico militare che crea il volto del nemico da combattere (che è sempre meno il virus) e porta a giustificare, come storicamente accade sempre, logiche individualistiche e nazionalistiche conflittuali, dove invece servirebbero risposte universali, partecipative e solidali.
D’altro canto, la comunicazione di notizie positive appare meno incisiva, anche se, ad esempio, lo studio e la ricerca sul virus, le possibili cure, il vaccino proseguono a ritmo incalzante e ogni giorno si ha qualche notizia in più a riguardo, se ci impegniamo a trovarla.
Il maggior risalto, in questo caso, non viene dato all’informazione ma ad una comunicazione che sembra avere come scopo rincuorare, rassicurare, semplificare all’estremo una situazione estremamente complessa da comunicare, perché composita di tanti dati e fattori, scientifici, medici, legali, sociali, politici.
Se il titolo “siamo in guerra” ha la capacità di applicare un filtro nero a tutto quello che leggiamo o ascoltiamo, il titolo “andrà tutto bene” applica invece un filtro rosa e siamo ancora lontani da un’informazione senza distorsioni.
I conduttori ci raccontano le canzoni dai balconi e gli arcobaleni appesi alle finestre. Gli influencer ci spiegano le tante cose che possiamo fare rimanendo a casa. Le presentatrici tv ci insegnano a lavarci le mani e, insieme ai politici, ci aiutano a dire le preghiere.
Qui viene in mente un accostamento con la vita familiare che, forse, è ardito ma funzionale.
Da una parte, la copertura rosa dei canti e degli intrattenimenti vuoti si rifà all’attitudine del genitore che, per non mostrare qualcosa che ritiene inappropriato, distrae il figlio con giochi e disegni, e gli accarezza il capo con fare tranquillizzante nella speranza che si addormenti. “Andrà tutto bene”.
Dall’altra, l’informazione alla ricerca del sensazionalismo e della tragedia appare come l’atteggiamento di certi adulti che per impedire ai bambini, più o meno piccoli, di correre un rischio o anche solo di sperimentare novità e libertà, li terrorizzano. “Se non ti comporti bene, chiamo l’uomo nero”
Regole importanti da rispettare ma nessuna spiegazione sul perché sia importante rispettarle, solo l’illustrazione di scenari catastrofici o la pantomima di scenari favolistici.
Il fine potrebbe anche sembrare buono, se non fosse che i cittadini non sono bambini e lo scopo finale non è la tutela sana che nasce dall’affetto e dall’interesse umano, ma il controllo e l’intorpidimento del pensiero.
Questa patina di terrore o buonismo che viene applicata sembra volta a coprire la situazione reale, come le censure dei film vietati ai minori e che così facendo, impedendo di vedere il problema, compromette la comprensione della soluzione.
Sembrerebbe di trovarsi di fronte all’intento, non di informare, ma piuttosto di colpire, creare una reazione o indicare come va vissuta questa situazione di emergenza e come è possibile reagire, proponendo una strada a bivio che allontana sempre dalla verità, assurgendo il ruolo di genitori che devono insegnare la vita ai figli. E non possiamo fare a meno di notare che il legame tra il rapporto genitore-figlio e il collegamento mezzi di informazione-ascoltatori/lettori, in nessun caso può essere accostato, perché il primo prevedere una quota di subalternità, quantomeno temporanea, che non può mai essere presente nel secondo.
Dai media ci si aspetta, in particolare in questo momento, quello che in realtà alcuni fanno anche in modo encomiabile, qualcosa di estremamente semplice e altrettanto fondamentale: informare, con l’unico scopo di fornire un servizio prezioso e vitale ai cittadini. Cittadini, che sono dotati di maturità e capacità, non solo di intendere e volere, ma anche di comprendere dei fatti, acquisire delle informazioni, leggere dei commenti e da lì pensare, desiderare, lottare, cooperare, cambiare, resistere.
Ci si aspetta la narrazione e il commento della verità, che non è terrorismo o allarmismo, né svuotamento di contenuti e buonismo.
Ad esempio, la verità potrebbe essere semplicemente che non siamo in guerra e non andrà tutto bene, ma possiamo fare di tutto perché vada nel miglior modo possibile e possiamo farlo insieme.
Irene Calzoli