Quando studiavamo psicologia e ci chiedevano che tipo di lavoro avremmo voluto intraprendere una volta conclusi gli studi, molti di noi erano incerti, ancora indecisi e confusi da questo mondo ampio e variegato al quale ci stavamo affacciando. Con il proseguire del percorso universitario ci siamo applicati, abbiamo imparato teorie e nozioni, acquisito strumenti e competenze, scoperto nuovi ambiti di intervento in cui realizzare la nostra futura professione e, piano piano, alcuni di noi sono riusciti a trovare una risposta alla fatidica domanda sul futuro lavorativo. Volevamo fare gli psicologi, aprire uno studio, vedere pazienti, aiutarli a stare meglio.
Sembrava già molto, eppure ci siamo presto resi conto che avere in mente una strada non bastava. Già tra i banchi dell’università le istituzioni stesse ci dicevano che era impossibile lavorare come psicologo, soprattutto nel privato, che questa professione oggi è fluida, liquida, trasformista, che il lavoro dovevamo inventarlo, crearlo, portarlo noi in contesti nuovi, diversi da quelli che avevamo immaginato, contesti che, a volte, ci sono sembrati “fuori contesto”.
Molti hanno iniziato a seguire bambini e ragazzi con DSA come tutor, a impartire ripetizioni, a lavorare negli asili e nelle cooperative come educatori, ad aiutare persone con disabilità, ad insegnare nel sostegno. Questi percorsi ci hanno messo alla prova, ci hanno fatto scontrare con il dolore umano, la sofferenza, la difficoltà di non sapere o non riuscire a dare risposte, ci hanno anche fatto maturare, diventare ogni giorno un po’ più esperti, ci hanno anche dimostrato quando ancora dovevamo studiare, comprendere, crescere.
Proprio queste esperienze, unitamente alla conclusione del tirocinio, al superamento dell’esame di stato e all’aumentare della nostra preparazione, ci hanno portato a confermare il nostro desiderio di intraprendere realmente la professione per la quale avevamo studiato.
Siamo psicologi e vogliamo lavorare come psicologi.
Fare gli insegnanti, gli educatori, i tutor ci ha gratificato ma la nostra professione è un’altra.
Siamo psicologi.
A questo punto è arrivata una doccia fredda, a cui in realtà negli anni dell’università ci avevano già preparati: per gli psicologi non c’è lavoro. Lavorare come psicologi è impossibile.
Ci avevano già detto e continuano a ripeterci che il lavoro dobbiamo inventarcelo. Alcuni, scoraggiati, hanno deciso di continuare a svolgere i lavori che già stavano portando avanti, seppur nella precarietà. Molti questo passaggio l’hanno saltato a priori quando, delusi da chi avrebbe dovuto fornirgli un sapere, degli strumenti, una direzione da seguire, avevano abbandonato l’ipotesi di lavorare realmente in campo psicologico; così sollecitati dalle contingenza della vita hanno iniziato a fare altro: non sappiamo bene se per scelta, per necessità, per confusione o per delusione molti laureati in psicologia lavorano come commessi, impiegati, camerieri nei fast food, speedy pizza e a realizzarsi professionalmente in campo psicologico non ci pensano neanche più.
Qualcuno invece ha continuato a cercare un’altra strada possibile, utilizzando “i grandi classici” della psicologia, il problem solving, la resilienza, il decision making, le strategie di coping, per “inventarsi” il lavoro di psicologo ma quei tanti concetti conosciuti al livello teorico erano poi molto complessi da applicare nella vita: un’ulteriore delusione scoprire che oltre a non averci fornito alcuno strumento pratico durante gli studi universitari, molto di quello che avevamo imparato perdeva valore allontanandosi dal libro stampato e avvicinandosi al mondo reale.
In ambito psicologico molte voci autorevoli ci propongono delle soluzioni e la risposta che ci viene data è duplice: da una parte cercano di insegnarci che la soluzione per superare la crisi della professione è la commercializzazione, il marketing per renderci esperti nel “sapersi vendere” e “farsi comprare”; da sapienti commercianti dobbiamo saper proporre la nostra “mercanzia”, allestire una bella vetrina e proporci con spiccate capacità affabulatorie, imbonitorie, persuasive, proprio come chi ci ha preceduto; dall’altra ci prospettano nuove possibilità di intervento in contesti lontani dal nostro ambito: lo psicologo nell’urbanistica, nelle nuove tecnologie, lo psicologo che diventa motivatore.
Propongono la decontestualizzazione della professione, professione che, invece, noi abbiamo scelto proprio per comprendere qualcosa che è al di sotto della realtà concreta, materiale e manifesta.
Come psicologi, e come persone, cerchiamo l’identità, il senso profondo, il contenuto e l’interno, di noi stessi, della realtà che ci circonda e della nostra professione, ma ci forniscono risposte sempre più esterne, sempre più concrete, sempre più superficiali. Proprio questo desiderio di accedere a qualcosa che c’è ma non si vede, alla causa che ingenera i nostri comportamenti e vissuti, al senso che si cela dietro il disagio, le diagnosi, le patologie, ci ha spinto ad avvicinarci agli studi psicologicie proprio a noi che dovremmo comprendere il mondo interno dei pazienti, saperlo leggere e mostrarlo loro per permettergli di stare meglio, viene proposto di occuparci di altro, di svolgere lavori diversi dal nostro che non necessitano di una formazione psicologica o di puntare sulla forma, sull’esterno invece che sul contenuto e sull’interno.
Invece il cuore della professione di psicologo è interessarsi alla psiche, al mondo interno, agli affetti, a quella parte profonda e intima di ogni essere umano che non si vede eppure è presente in ogni momento, in ogni pensiero e in ogni azione o comportamento, ed è la causa dello stare bene o stare male dei nostri pazienti e di tutti noi.
Eppure tutto questo sembra che vogliano farcelo dimenticare se la lettura che ci viene proposta di un fenomeno reale e altamente preoccupante come la forte disoccupazione degli psicologi è del tutto esteriore e, come tale, l’unica risposta possibile è solo apparentemente risolutiva perché cerca in modo impacciato, distraente e dissimulatorio di agire sulle conseguenze e non sulle cause del problema.
Desideriamo un’identità e ci rispondono con la confusione e la vaghezza, desideriamo una profondità e ci rispondono con la superficialità, desideriamo una direzione e ci rispondono con un labirinto tortuoso di strade alternative e dissestate, desideriamo essere psicologi e ci raccontano solo come non esserlo.
Desideriamo lavorare come psicologi clinici, aprire un nostro studio per aiutare le persone a stare meglio ma ci propongono che se non riusciamo a lavorare dobbiamo direzionarci su settori più floridi, aprirci alle nuove tecnologie e alla realtà virtuale o ispirarci a “chi ce l’ha fatta”, come gli youtuber o gli influencer.
Psicologi che consigliano ad altri psicologi di non fare gli psicologi.
E gli psicologi stessi, demoralizzati e confusi, finiscono con l’adeguarsi a quelle che sembrano essere le uniche possibilità di lavoro.
Che fine ha fatto, allora, quel desiderio che ci aveva spinti a scegliere il lavoro più bello del mondo?
Se il lavoro dello psicologo è legato al desiderio, il desiderio del paziente di stare bene e il desiderio dello psicologo di aiutare quel paziente a realizzarsi, non possiamo dimenticare che la scelta della nostra professione nasce da questo desiderio che ci ha spinti e portati avanti negli anni di studi, tirocini formativi ed esperienze professionali, e che questo desiderio va alimentato credendo nella possibilità di aiutare chi ne ha bisogno, nella capacità di intervenire sul disagio e sulla patologia, sostenendo i pazienti nel superarli. Non possiamo dimenticare che per fare tutto questo non dobbiamo degradarlo a mero aspetto economico e materiale ma dobbiamo ritrovare la componente umana ed affettiva di quel desiderio e della nostra professione.
Allora a chi racconta che non è possibile fare lo psicologo o propone soluzioni materiali alla difficoltà di trovare lavoro, negando il senso stesso della nostra professione, non possiamo che dare una sola risposta: non è vero.
La verità è che oggi dobbiamo ricordarci di quel desiderio, ritrovarlo dentro di noi, fargli spazio, accudirlo, proteggerlo e farlo crescere, non fermandoci all’acquisizione di concetti frammentati che si è rivelata inefficace e deludente ma andando alla ricerca di un sapere che sentiamo vero e confrontandoci con chi ci propone che essere psicologo è possibile.
Psicologi che consigliano ad altri psicologi di fare gli psicologi, di essere psicologi.
La verità è che la crisi del lavoro psicologico va affrontata volgendo lo sguardo all’interno, alla qualità e al valore della formazione teorica e pratica, alla necessità di un percorso di terapia e di una crescita personale che sia reale e piena.
La verità è che dobbiamo prendere il coraggio di vedere, prima di tutto noi stessi, e poi il mondo della psicologia in generale con la stessa attenzione con cui dovremmo rivolgerci ai nostri pazientiper comprendere che dopo anni di studi, ricerche ed analisi è sempre più necessario proporre una psicologia nuova, anche se presente da sempre, che considera fondamentale il sapere teorico, il fare pratico, ma considera e si rivolge all’essere.
La verità è che ognuno è chiamato, proprio dall’esigenza di chi si rivolge a noi, ad approfondire la propria professione e professionalità, che non è solo pratica con i pazienti ma un modo di vedere, leggere e comprendere la realtà, di approcciarsi, rapportarsi e rispondere agli altri che ci appartenga sempre, non solo nello studio: un modo di essere che sia nostro, coerente ed integrato in ogni ambito della nostra vita.
La verità è che non dovremmo più chiederci come, quando o dove fare gli psicologi ma dovremmo iniziare ad essere psicologi.