Il commento di uno psicologo sui dati Alma laurea
“L’uomo migliore è quello che non si è mai inchinato di fronte a una tentazione materiale”. – FËDOR M. DOSTOEVSKIJ
Il lavoro dello psicologo e la formazione in psicologia: i dati
I recenti dati di Almalaurea hanno confermato una condizione occupazionale difficile per la professione psicologica. Due sono le variabili analizzate “critiche” dove gli psicologi si sono posizionati in riferimento alle diverse altre facoltà: l’inserimento nel lavoro a 5 anni dalla laurea e lo stipendio medio. In entrambi i casi gli psicologi sono in posizioni sfavorevoli, il compenso medio ricevuto è addirittura il fanalino di coda della classifica.
È una rilevazione altamente sconfortante, e le cause possono essere molte ed intrecciate tra di loro, ma a mio avviso afferenti da un’unica radice.
I dati aggiornati di Almalaurea sembrerebbero dipingere uno scenario sociale che fatica a dare valore allo psicologo. Ad “accettarlo”, o quanto meno a riconoscere la rilevanza del suo operato per il miglioramento della vita delle persone. Infatti, il dato più allarmante non è quello riferito al guadagno medio, ma al posizionamento all’ottavo posto per quanto riguarda la presenza di un impiego che, come riportato e descritto nei dati Almalaurea già in passato, spesso non è svolto all’interno del proprio campo professionale studiato, anzi.
Sia per quanto riguarda l’impiego che la retribuzione, le prime posizioni nelle classifiche sono occupate prevalentemente da discipline tecnico-informatiche. E questo è un dato stabile ormai da tempo. Tuttavia, abbiamo appena attraversato, o meglio, stiamo attraversando una pandemia globale, che porta con sé una lunga serie di enfatizzazioni e riacutizzazioni del disagio psichico, come confermato dalla ricerca scientifica e riportato dalle maggiori testate giornalistiche. Nonostante questo, gli psicologi, coloro che hanno il mandato sociale di supporto del cittadino, sono agli ultimi posti.
Un’ulteriore “mazzata” alla professione psicologica è stata data dal recentissimo report del fabbisogno formativo per l’anno 2021-2022 tra il governo e le regioni. Qui si può leggere con sgomento che la richiesta per quanto riguarda il nostro campo professionale è letteralmente pari allo ZERO.
Il fenomeno è di fronte a noi, e necessita di una riflessione sul perché questo accada.
Certo, si potrebbe anche far finta di niente e mettere la polvere sotto il tappeto, ma oramai la “polvere” ha raggiunto delle dimensioni elefantiache: c’è un elefante nel salotto e nessuno lo vede. Ma noi siamo psicologi e nella nostra professione siamo chiamati a porci delle domande e a permettere al paziente di fare altrettanto, per trovare poi delle risposte valide che diano significato alle situazioni e possano aprire alla possibilità di trasformare lo stato delle cose migliorandolo. Inoltre, last but not least, lo psicologo è chiamato a non chiudere gli occhi, facendo finta di niente, a non annullare la realtà fingendo che non esista e sperando così di alterarla. Potremmo dire che lo psicologo ha il dovere umano ed etico di rendersi conto di quando “l’elefante è nel suo salotto”.
I dati dicono che le prime posizioni per occupazione e retribuzione sono occupate dalle lauree nel campo tecnologico-informatico
Questo ha dei riscontri anche nell’ambito sociale, dato l’investimento economico, temporale ed affettivo sulla tecnologia e l’informatica per ogni individuo. Questo perché l’informatica porta con sé una promessa, un costante aggiornamento che determinerà possibilità nuove, ancora neanche immaginate.
Una crescita costante, uno sviluppo concreto, che garantirà uno “stare”, un vivere, in modo “migliore”, che permetterà di essere adattati alla nostra realtà quotidiana. Tuttavia, a crescere sarà solo il dispositivo e quando raggiungerà il limite hardware che possa supportare il nuovo aggiornamento, andrà cambiato.
Anche quando i pezzi si rompono si possono cambiare. Infatti, la tecnologia porta con sé un altro aspetto rilevante: il difetto. Il difetto nella sfera tecnologico-informatica è inammissibile. Che sia un problema strutturale (corpo) o sia un problema di software deve essere risolto il prima possibile. Pena una macchina da lavoro inefficiente e non responsiva. Il problema deve essere risolto, anche a costo di cambiare pezzi o device interi.
Una psicologia tecnica
L’approccio tecnologico-informatico che siamo abituati a sperimentare giornalmente quando utilizziamo un dispositivo, spesso è una logica rilevabile anche nel mondo della psicologia, messa in atto dal paziente come dallo psicologo.
Infatti, spesso la domanda con cui i pazienti si rivolgono allo psicologo è la cessazione di sintomatologie egodistoniche, che lo rendono in un certo senso “malfunzionante”. L’essere umano tuttavia non è un computer o uno smartphone e non si possono cambiare i pezzi o device. Lo stesso avviene per le sintomatologie, rese difetto, errore da eliminare. Ma, ancora, l’essere umano non è un computer. Per un periodo, forse non ancora finito, certe branche della Psicologia hanno cercato di paragonare l’essere umano ad un computer distinguendo appunto le sue componenti hardware e software, concrete, fisiche, organiche e quelle immateriali, non fisiche, “i programmi” per svolgere lavori, faticando però a trovare risposte profonde e realmente risolutive.
Una psicologia umana
Forse il problema è anche questo. Finiamo come fanalino di coda delle lauree che creano occupazione e lavoro perché ci ostiniamo a cercare di essere quello che non siamo. A credere che per risalire la china sia necessario prendere esempio da chi nei dati è prima di noi, a snaturarci.
La verità è che a volte anche noi psicologi non consideriamo quello che realmente fondante nella nostra professione.
L’essere umano “è” il suo corpo e la sua mente ma ha anche una parte affettiva inconscia, che permea il corpo e la mente: il mondo affettivo. Una parte fondamentale dell’essere umano che si esprime nei desideri, nei sogni, nelle aspirazioni, nei rapporti lavorativi ed affettivi, nella salute come nella patologia. Una parte che permette la crescita e lo sviluppo dell’individuo, ed ancora del suo adattamento alla realtà che vive e che vivrà.
La psicologia non può far altro che dar peso a questa componente essenziale umana, invece spesso si piega ad una soluzione sintomatica corrispondente alla richiesta del paziente. Certo, è importante che si possa guarire dalla sintomatologia, tuttavia il “come” e il senso profondo di quel sintomo sono aspetti da non sottovalutare. Vedere in quelle sintomatologie una comunicazione del paziente ad esempio di “perdita” di una realtà che permette la crescita e l’adattamento, è diametralmente opposto al paradigma informatico e questa prospettiva permette notevoli sviluppi. Ridonando, invece, dignità alle manifestazioni patologiche, alla luce delle dinamiche affettive, si creerà una strada non solo per il superamento dei sintomi, ma per uno sviluppo ed una crescita della persona, attraverso il ritrovamento delle sue capacità e qualità di rapporto con il mondo.
Una psicologia leggera, anzi leggerissima
La mia critica tuttavia non vuole rivolgersi agli ingegneri e agli informatici, che svolgono un ruolo delicato e rispettabile, e che deve essere riconosciuto da un giusto guadagno e da un rispetto sociale, ma agli psicologi che tendono a perdere la loro “anima”. A credere che se gli informatici trovano lavoro più facilmente degli psicologi la soluzione sia “tecnologizzare la psicologia” piuttosto che valorizzare la profondità e la verità di una professione estremamente centrale per il benessere e la crescita umana. Se togliessimo “l’anima” dalla psicologia, la parte non materiale profonda, rimarrebbe soltanto la razionalità, la materialità e la concretezza; un discorso che parlerebbe solo ad una parte dell’essere umano, formato invece anche da una parte che concreta non è.
Una psicologia leggera, anzi leggerissima, poiché svuotata della sua parte non materiale che dà peso alla professione e alla cura.
La risposta di Essere Psicologo ai dati di Almalaurea
I dati Almalaurea e il report del fabbisogno formativo per l’anno 2021-2022 chiamano noi psicologi ad una trasformazione. O meglio ad un ritrovamento della nostra peculiarità come professione. Della nostra capacità di crescere ed aggiornarci (che non possiamo soltanto richiedere al paziente), di adattarci alla realtà senza doverci deformare, perdere.
Se ritroviamo quindi la nostra identità, la nostra storia, facendo perno sulle capacità affettive umane, come professionisti ma anche come individui, allora potremo far fronte anche alle problematiche della nostra vita, come quelle del paziente.
E non sarà allora la società a dover accettare e riconoscere il nostro ruolo. Quanto piuttosto noi psicologi a ritrovare il nostro reale valore di coloro che possono parlare delle profondità della psiche umana, riconoscendo ciò che rende davvero profonda e importante la professione.