“Prima stavamo bene, era tutto più bello. Eravamo liberi. Liberi di uscire, liberi di lavorare, liberi di acquistare, abbracciare, viaggiare, amare. E non ce ne rendevamo conto.”
“Oggi siamo limitati, bloccati, in gabbia. Stiamo male perchè ci hanno privato delle possibilità che avevamo prima e a cui, stolti, non abbiamo dato il giusto valore.”
“Stiamo male perché non abbiamo, non possiamo. La quarantena ci toglie la libertà. Quando saremo di nuovo liberi, torneremo a star bene.”
Il leit motiv che accompagna questo periodo, che sembra protrarsi di decreto in decreto, suona più o meno così. Passato il momento di “caos” iniziale fatto di canti sui balconi, applausi a mezzogiorno e skype-aperitivi, in cui tutto sembra una novità e una sorta di pausa dalla routine, la routine diventa un’altra e ci si dà il tempo di iniziare a sentire.
Di pensieri simili ne abbiamo detti e sentiti tanti, anche prima dell’emergenza coronavirus: “quando arriveranno le ferie”, “quando sarò laureato”, “quando andrò a vivere da solo”, “quando avrò lasciato il mio partner” allora sì che “sarò libero, la mia vita cambierà, potrò fare quello che ora posso solo immaginare”. Il lavoro, lo studio, la convivenza familiare, i partners, il tempo impiegato ad impegnarci per qualcosa, sono le gabbie che ci impediscono di esprimerci, di fare quello che desideriamo davvero. La causa del nostro blocco e della nostra prigionia è l’altro, è la situazione, la circostanza, è costantemente fuori di noi. Sto male perchè l’altro mi impedisce di fare, non mi comprende, non mi asseconda, non mi vede. Siamo esenti da qualsiasi responsabilità.
E non è vero.
Non è vero perchè dopo un po’ quel tempo, quella “libertà” desiderata, quelle ferie arrivano, si aprono magicamente le porte delle gabbie e ci si ritrova… immobili. In ansia. Bloccati. Bloccati dalle possibili ed infinite strade, bloccati dalla semplice responsabilità della scelta che ci si materializza davanti, impauriti dallo spettro di una consapevolezza che aleggia e che fino a poco prima della “libertà” ritrovata non avevamo proprio considerato:
“E se non cambiasse niente?”.
Se quel blocco che percepivo, se quella difficoltà a proteggere i miei desideri, i miei sogni, le mie realizzazioni, se quel vuoto che sentivo e che attribuivo all’azione dell’altro, in realtà, appartenesse a me?
“Ridateci la routine!”, potrebbero gridare in molti. Ridateci il lavoro per aspettare le ferie, ridateci lo studio per anelare alla laurea, ridateci la famiglia per attendere l’autonomia, ridateci il partner per desiderare di poterlo cambiare.
Ridateci la possibilità di affidare la responsabilità del blocco ad altro.
Eravamo in gabbia, comunque, anche prima. Una gabbia coperta da veli, distrazioni, vetrini colorati che ammaliavano l’ospite e gli impedivano di vedere che aveva solo abbellito una prigione, rendendosene complice silenzioso.
In un attimo si concretizza quella consapevolezza e ci si rende conto che se chiusi in casa per la quarantena ci si sente bloccati ed impotenti, è perchè quel blocco e quell’impotenza erano al nostro fianco anche quando c’era la possibilità di uscire in qualsiasi momento.
Ci si rende conto che chi aveva paura del “contagio” negli abbracci prima ne ha paura oggi, chi aveva paura di affidarsi prima ne ha paura oggi, chi aveva paura dell’altro prima ne ha paura oggi. Chi aveva paura della libertà prima, la libertà vera, quella fatta di un’autonomia che nasce dagli affetti e che negli affetti si sviluppa, ne ha paura oggi.
Chi era bambino arrabbiato, adolescente ribelle, adulto dipendente prima, lo è anche oggi. Sono solo caduti i veli.
E si grida a gran voce all’emergenza psicologica. Oggi si invoca l’importanza di un rapporto che dia attenzione al mondo affettivo, a quella parte profonda di noi che in una situazione così difficile e complessa entra in crisi, non regge, va in tilt, si sente costretta, perde punti di riferimento, perde speranza e desideri, perde la parte viva di sè, perde la memoria delle proprie qualità.
Oggi. Prima, anche la necessità di questa attenzione, di questo prendersi cura, era celata dai veli.
“C’è la pandemia, è comprensibile”.
E’ comprensibile se la causa prima non è la pandemia, se si pone l’attenzione a quel prima, se ci si pone il problema che gli esseri umani che oggi si sentono persi e vuoti, vivevano e sentivano quel vuoto ancor prima del virus, a causa di delusioni e vissuti di assenza che hanno confermato la paura di non poter essere visti, amati e compresi, la convinzione che dovevano difendersi dall’altro, reso portatore di un male invisibile.
E ora, in isolamento fisico, vedono semplicemente confermate le loro paure.
“Avevo ragione, devo difendermi, è l’unica strada.”
E non è vero.
E allora ben venga la consapevolezza, benvenuti ai veli che cadono, ai riflessi colorati che si rivelano pezzi di vetro, alla presa di coscienza che per far sì che si possa godere di quel tempo, di quei rapporti, di quel “dopo” è necessario mettere al centro e dare nuovamente valore a quella parte interna e affettiva, preziosa e spesso calpestata, che è il motore di tutto il nostro sentire.
Su questa scia, mi piacerebbe davvero che la domanda che ognuno di noi ha dentro di sè ogni volta che il Presidente del Consiglio appare nelle nostre televisioni si trasformasse da: “Quando potremo essere di nuovo liberi?” a “Come?”.
Rendendoci conto che se è vero che la gabbia non è la pandemia ma i nostri occhi chiusi e ciechi, è anche vero che la chiave per uscire dalla gabbia è sempre stata nella possibilità di aprirli quegli occhi, ci siamo solo dimenticati di possederla.
Aprire gli occhi su un inizio, su un prima della delusione, su un prima della rabbia e delle difese. Su un tempo in cui sentivamo che l’altro non era un nemico a priori, in cui c’era la possibilità che dall’altra parte non ci fosse solo qualcuno pronto ad aggredirci, ma che potesse interessarsi a noi per il semplice desiderio di esserci.
Su un tempo in cui sapevamo del mondo profondo dell’altro come intuizione ed investimento affettivo, che non ci portava a chiuderci e a difenderci, ma ad aprirci per accogliere un interesse che fosse vissuto per noi e non contro.
C’era un prima della nascita, in cui tutto questo era possibile, lo sapevamo fare tutti, era parte di noi. Dobbiamo andare a ritrovare quel prima, la consapevolezza che siamo nati per l’umano e non per il disumano, nati capaci di sapere di noi e di chi ci sta di fronte semplicemente perchè in grado di essere davvero in rapporto.
Siamo nati identità e per difenderci dalle delusioni ci siamo trasformati in identificazione, mettendo su la corazza. Ma ogni essere umano desidera che quella corazza venga rotta, che qualcuno lo smascheri e lo aiuti ad interrompere quella folle ed incessante corsa del criceto sulla ruota che continua a portare avanti come se fosse programmato per fare sempre e solo quello. Ogni essere umano desidera fare l’amore, dove essere compresi è possibile se comprendiamo, dove essere accolti è possibile se accogliamo.
Il ricordo di quel prima, un recupero attivo, è il primo movens che può darci la possibilità di dire di no alla gabbia.
Allora possiamo tornare liberi se comprendiamo che le persone che non sono entrate in crisi, nonostante le difficoltà, le preoccupazioni e i problemi legati a questa situazione, sono quelle che hanno mantenuto saldo e vivo quel prima, il proprio mondo affettivo, le immagini e i ricordi dei momenti soddisfacenti trascorsi con i propri affetti, trovando il modo di esprimere la creatività semplicemente in modo diverso.
Non è entrato in crisi chi prima viveva il lavoro, il partner, la convivenza, i rapporti come realizzazione e crescita continua, cercando di mantenere tutto questo anche oggi, anche nell’assenza, perchè non viene data all’impossibilità di abbracciare l’altro il potere di far scomparire il ricordo di noi amati e realizzati in quei momenti vissuti e condivisi.
Non è crollato chi amava andare al lavoro al mattino, ma amava altrettanto tornare a casa la sera per godersi un buon libro, un bicchiere di vino con la propria compagna, una favola o un gioco con i propri figli. Chi trascorreva qualche ora con i propri genitori e riusciva a prendersene cura da pari a pari, per il piacere di farlo, nonostante le preoccupazioni.
Chi, chiamato a risolvere problemi, a volte percepiti enormi ed insormontabili, non si è arreso al pensiero di non potercela fare, ma ha continuato a tenere viva la fiamma della speranza.
Non si sono perse le persone che erano libere ieri nell’affrontare le difficoltà consapevoli delle battaglie vinte, così come sono libere oggi nella scelta di stare in casa, nonostante tutto ciò che questo comporta, per prendersi cura dell’altro.
Mi piacerebbe che questo tempo non dia la stura alla parte cinica e disincantata di ognuno, che in fondo in fondo pensa: “La situazione non cambierà, le persone non cambiano. Così come erano avide, egoiste ed imbroglione prima, lo saranno anche dopo. Il cambiamento è solo un’utopia”. Se volgessimo l’occhio di bue verso la nostra avidità, il nostro egoismo, la nostra falsità e la nostra resistenza al cambiamento invece che su quella dell’altro, potremmo renderci conto che quel cambiamento che tanto desideriamo nel mondo può e deve partire da noi.
Ieri in libertà, oggi in quarantena, domani in una normalità nuova e trasformata, che potrà essere davvero tale solo se quelli nuovi saremo noi.
Raffaella Mastracchio