LA GUERRA CHE VERRÀ di Bertolt Brecht
La guerra che verrà
Non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
È guerra.
Nuovamente guerra.
Le immagini di esplosioni, di esseri umani in fuga, di truppe schierate, sgomentano e raccapricciano l’osservatorio del mondo che abbiamo sul nostro schermo, sui nostri giornali e nelle nostre televisioni. Ci troviamo ancora a misurarci con una pandemia refrattaria allo scomparire e che ha mietuto oltre 5.878.328 vittime nel mondo. Una pandemia che ci ha trovati uniti nel combatterla, per la quale non esistevano “i miei territori, i tuoi territori”. Eppure, oggi, torniamo indietro e dimentichiamo: altro sangue verrà versato, altre vite verranno spente, altre lacrime verranno versate.
Sentiamo parlare di una guerra giusta e doverosa, fatta per difendere i propri confini o il diritto e gli accordi internazionali, ma ci chiediamo: quando una guerra può dirsi “giusta”?
Da psicologi sappiamo bene quanto sia drammatico vivere un trauma e sappiamo, al contempo, quanto pericolose siano le difese psichiche che, a causa di quel trauma, mettiamo in campo. Difese che allontanano dai rapporti, barricano nell’incomprensione e nel dolore, portano ad aggredire l’altro che è diventato nemico. La recettiva empatia lascia così il posto alla tetra proiezione. Ecco la base del rapporto conflittuale.
L’uomo perde la sua principale caratteristica: la sua “umanità”, che gli permette di percepire quella altrui. Acquisisce invece una triste e distruttiva “capacità”: agire sugli altri quella stessa aggressione subita, divenuto ormai esperto poiché ne è stato vittima, fa agli altri quello che non avrebbe mai voluto ricevere, si tramuta in quello che non avrebbe mai voluto essere: diventa disumano.
Ancor più grave poi, se si può, è un altro fattore che caratterizza questi momenti complessi: l’uomo veste con abiti nobili la sua disumanità, giustifica ed impacchetta i suoi atti con la carta velina dei “grandi ideali”, delle “grandi imprese”, del “non potevo fare altrimenti”, così da poter dormire sereno per le vittime mietute o i danni arrecati. Ma di “carta velina” si tratta e la sua semi-trasparenza lascia inevitabilmente trapelare l’inconsistenza di queste logiche a fronte del dolore e della distruzione causata per raggiungere gli obiettivi preposti.
Tanta acqua nei mulini del sapere è passata dall’apparentemente apodittico e machiavellico “il fine giustifica i mezzi” (usato colloquialmente in questa accezione), ed è per questo possibile contrapporre diversi pensieri a questa vecchia logica, purtroppo ancora in uso. Ad esempio si può citare una frase di McLuhan, filosofo e sociologo canadese, che dice: “il medium è il messaggio”. Seppur nato in un contesto di comunicazione, questo pensiero pone un’importante questione: il “mezzo” con cui esponiamo il nostro contenuto dà forma al messaggio, modificandolo e diventando esso stesso contenuto: per cui il fine è il mezzo! Se la guerra è il mezzo per raggiungere degli obiettivi, per “comunicare” il proprio messaggio, l’unica cosa che si comunicherà è la guerra. Questo accade nei rapporti conflittuali nei quali agiamo la rabbia e l’aggressività: in preda alla rabbia urliamo con foga il nostro pensiero (nel migliore dei casi) nella speranza che l’altro possa capirci, ma in realtà ciò che comunichiamo sarà solo rabbia e aggressività, spesso, purtroppo, portando l’altro a reagire, ad aggredire a sua volta. È la rabbia che comunica rabbia e che genera solo altra rabbia. È la guerra che comunica guerra che genererà altra guerra.
La storia personale di ciascuno di noi è fatta tanto di rapporti soddisfacenti quanto di forti delusioni, che scavano dentro di noi ferite e che, se non curate, non smettono di procurarci dolore, facendoci sentire a pezzi, disintegrati, portandoci a volte a far provare lo stesso male all’altro. E allora diveniamo noi i generali di una guerra che è in primis verso noi stessi. È guerra se scegliamo di non curare queste ferite, di non vedere nel profondo ciò che le ha causate e, allo stesso modo, di non vedere ciò che in noi invece non è ferito, ma fiorito, ciò che in noi è possibilità di tornare a star bene, integrati. È continuando questa guerra verso noi stessi che rendiamo il mondo attorno a noi bellicoso, ostile, immutabile.
Orwell, in “1984” scriveva, dando voce al deprecabile personaggio O’Brian: “Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre “. Questa amara profezia si concretizza e si conferma ogni volta che si dichiara guerra in grande, ma anche ogni volta che cediamo al conflitto nelle sue manifestazioni più comuni, nei litigi, nel mancato rispetto e nel conseguente annullamento del pensiero dell’altro: ogni volta che perdiamo la nostra umanità dichiariamo guerra.
Il termine “umanità” viene spesso inteso come sinonimo di “pietà”, pronunciato con un atteggiamento pietistico, oppure viene associato ad una condizione di fragilità, di debolezza, di difetto, di imperfezione dell’uomo. Ciò a cui dobbiamo invece appellarci, per contrastare questa nefasta situazione, è il nostro mondo affettivo, ciò che ci rende davvero umani: questa non è la nostra debolezza ma la nostra forza.
Mondo affettivo è la nostra capacità di ricordare secoli di storia in cui gli uomini si sono persi e odiati e, attraverso il ricordo, riconoscere che forse questa strada è stata percorsa troppe volte e troppe poche cose sono cambiate e dunque, per dirla con A. Einstein, “non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose”. Mondo affettivo è ricordare secoli di storia in cui gli uomini si sono amati ed hanno amato attraverso la loro arte, la scienza, la cultura, contrapponendosi alla bugia secondo la quale il conflitto è insito nella natura dell’uomo.
È controbattere quindi alle goffe e rudi manifestazioni della disumanità, dare voce e respiro a ciò che di vivo e vero può generare l’uomo, la vita contro la morte. Un esercito fatto non solo di persone vive ad oggi, quindi, ma anche di uomini e donne che ricordiamo e ci hanno lasciato il loro pensiero ed il loro affetto, armati solo di amore, passione, vitalità.
Mondo affettivo è poter vedere dentro la razionale “carta velina” le ideologie cieche, opporsi e dire un “no” che non distrugga, ma che invece protegga la vita senza utilizzare la rabbia e l’aggressione.
Guardare all’umanità e alla realtà affettiva degli esseri umani può essere la nuova strada per smettere di dividerci, farci a pezzi, e poterci unire: uniti per l’umano.